Hanno condiviso le mie parole

venerdì 29 agosto 2014

HO SPENTO LA LUCE


Ho spento la luce. Cercandola a tastoni dove so.
La testa sul cuscino, il corpo raccolto su un fianco, non contratto. Una mano sotto al volto, come a sostenerlo, l’altra che si muove. Sto ascoltando. Le dita scorrono sulla benda, la toccano delicatamente nella prima sensazione. Sto cercando a strati. Il senso del tatto, del tessuto sulla pelle, il confine esplorato dell’inizio e della fine. La pelle è calda, morbida e pulsante, la fascia avvolge e crea differenza, quasi impercettibile, come il camminare su un tappeto di velluto rosso…Non so perché ho in mente il rosso, io indosso il nero; nero notte, nero buio, nero non vedere. Ma il rosso è il percorso privilegiato. Le dita si spostano sull’arco sopraccigliare, lo seguono, passano allo zigomo, lo modellano, ritornano al globo dell’occhio, lo circondano. Sto cercando a strati. In mente ho le statue di marmo, la voglia di toccare che attira gli occhi di disapprovazione nei musei, il sorriso da bambina del bisogno di quel gesto. In mente ho la creta, il tocco umido a modellarne fattezze, la voce che spiega quanto è importante capirne il punto di  calore, prima del quale la materia è indomabile, dopo il quale “impazzisce”, al centro del quale, è docile e plasmabile. La mano si appoggia sul volto, gemella dell’altra, come a contenerlo. E arrivano gli odori; più ampi, più intensi. Sto cercando a strati. Ho in mente ora che così bendata, tutto sarà da chiedere; posso fumare?… E aspettare i dettagli.
O muovere le mani a tastoni cercando. Posso muovermi?...E dove? Due pensieri ora: ho insegnato a lungo ad un ragazzo cieco ad usare la sua nuova vista: A creare nuova memoria dove i vecchi dati scomparivano piano piano. Il suo volto e il suo corpo devastato da una frattura netta, tra il vivere di prima e l’adesso. Un corpo ed un viso immortalati in immagini di angelo, alte come una parete, appese ad un muro, da non vedere mai. Una vita cambiata da una moto. Amava riprodurre volti in creta, teste spinte indietro, occhi, bocche aperte in urli, o esigenza di respirare. Insieme prendevamo possesso della materia, insieme ascoltavamo la mia voce e la sua, insieme cercavamo la luce nella sua stanza chiusa. Una lunga esplorazione degli oggetti, delle cose intorno a lui, del mio viso; e poi la dichiarazione del… sto vedendo questo. L’ho lasciato bruscamente prima di diventare strumento, spatola , fil di ferro…
E la mia nonna, cieca per tutta la mia conoscenza di lei. Una bambina a cui insegnare mani, che toccano, assaggiano, sentono. I suoi occhi azzurri sempre attenti, il suo muoversi ai suoni alla perfezione, il suo portamento elegante e nobile, la forza della vita. Cucinava con le mani, comperava con le mani, si muoveva con le mani. Ascoltava con le mani, parlava con le mani. No…ora ce n’è un terzo, pensiero. Le mie mani ora. La rabbia di un momento in quel piccolo arco immobile che non risponde più; il dito frantumato e leso, ossa e legamenti, in un gesto di violenza sorda e senza fiato. Le mie mani erano belle. Le mie mani sono belle. Ma quando stringo per contenere resta una piccola luce in fondo al pugno; scapperebbe una  mosca prigioniera, l’acqua che mi illudo di conservare lì. Il volto fra le mani, appoggiato sul cuscino, la benda sugli occhi. E’ notte e gli occhi sono chiusi. Li riapro per vedere, il nulla nero. Stanno aperti gli occhi bendati? Stanno chiusi come in un lungo sonno?.La bella addormentata nel bosco, per cento anni a venire. Le ciglia bisticciano con il tessuto, cerco a strati. Spalanco i miei occhi grandi, occhi d’oro nel nero. Il percorso privilegiato è rosso. Mascherina, quella per dormire; domani la cerco, per capire bene l’anatomia del buio. Questa benda sarà perfetta, immagino le mie mani a rifinirla. Lo sarà? Ho paura. Cerco a strati la paura.

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